martedì 11 marzo 2008

alternative


catrame e rifiuti da stiva, boe e barili di petrolio arrivati a riva come delfini spiaggiati, se ne stavano mischiati a depositi di conchiglie e alghe e ossi di seppia che, fossi stato piccolo (e cioè molto prima di scoprire che montale così aveva intitolato versi, buoni da spargere sull'anima, qualora fosse stata troppo asciutta), avrei utilizzato per decorare castelli di sabbia.
in lontananza, navi enormi pulivano le cisterne con l'acqua di mare, dopo averne svuotato il contenuto al petrolchimico di brindisi, o chissà dove.
questo era la spiaggia di cerano, in un giorno caldo di gennaio del 1995.

io e paola avevavamo vent'anni e poco altro: una macchina in prestito dai miei, e un sentimento che ci univa.
eravamo gli eroi assoluti di quel pezzo di deserto.
la vita, che sentivamo scalpitare dentro alle nostre gambe, era piena di lusinghe, e ancora tutta da inventare.

alla nostra sinistra, imponente come un'aquila d'acciaio appollaiata sulla costa, la centrale a carbone più grande d'europa - quella che porta il nome di un imperatore illuminato che, ci fosse stato ancora lui, mai l'avrebbe fatta - rimandava ogni tanto spettrali rumori che si sovrapponevano agli stridii dei gabbiani.
il pezzo di costa su cui ci trovavamo, senza quel mostro verde e nero, vista dal mare, sarebbe parsa piatta e quasi tutta uguale.
bella, nella sua selvatica amarezza.
"ma tu te lo immagini lo sbarco dei turchi? non doveva essere molto diversa la terra che si trovarono davanti....diversa da come è adesso, intendo."
"ma non c'era la qui presente, all'epoca...non so, come come la vuoi chiamare questa cosa che respira accanto a noi? il grande feretro?"
"ma paola, siamo abituati alle cattedrali nel deserto...questa è la terra delle cattedrali nel deserto!"
"cattedrale non è il nome giusto, perché di sacro non c'è proprio niente in questo mostro che ha occhi e bocca e naso e braccia semoventi che prendono e mangiano gli uomini. ma lo sai che ogni tanto qualcuno ci rimane secco?"
"no, non lo so. che è questa storia?"
"c'è che l'acqua del mare, utilizzata per raffreddare gli impianti, viene aspirata e poi buttata fuori molto più calda. i pesci pare che cerchino questo calore e allora se ne stanno tutti nei dintorni del mostro. i pescatori lo sanno, e vanno lì a prendere i saraghi e le vope e i polpi nascosti tra gli scogli. una volta un subacqueo ha sbagliato orario, o forse non lo sapeva che si sarebbero aperte le fauci, ed è finito aspirato dalle pompe idrovore. il mostro lo ha risputato, dopo due giorni, lessato".

all'epoca non sapevamo che quello non sarebbe stato il peggio.
avevamo la testa piena di eroi e di torri saracene diroccate, di speranze e di poesia.
ci dicevano che a coltivare saldi principi, a comportarsi correttamente, a dare onestamente il meglio di noi, avremmo trovato un pezzo di felicità.
e noi ci credevamo ciecamente.

per poco che ne sapessi di un sentimento così complesso come l’amore, io sentivo di provarlo per quella ragazza che sedeva al mio fianco.
i suoi occhi, a raccontare, si erano stretti in fessure, e mentre parlava non smetteva di fissare il mare.
il vento le scompigliava i capelli e lei lo lasciava fare.
guardavo il suo profilo, in rilievo sullo sfondo azzurro del cielo, e in mezzo al contrasto di quei colori netti, mi sembrava ancora più bella.
le presi il viso e la baciai.
rispose con la passione che le conoscevo.
non c'era una volta che non mi avesse voluto quanto la volevo io.
finimmo per fare l'amore lì, mezzi vestiti, scostandoli giusto quel tanto che sarebbe servito, aprendo gli occhi solo a controllare che non ci fossero sguardi indiscreti, cosa comunque probabile nel mezzo di una spiaggia, pure se era gennaio.

risalendo in macchina, mi disse:
"sai, mentre facevamo l'amore, ho aperto gli occhi e c'eri tu, e il cielo sopra di te, ed era tutto così meraviglioso, il piacere che si mischiava all'odore del mare, i gabbiani volare e non fregarsene niente di noi, come fossimo stati barche rivoltate sulla spiaggia, ovvero una cosa normale, e per me era come fare l'amore con te e con tutto quel pezzo di mondo...".
quando se ne usciva così, io mi sentivo piccolo e non sapevo che dire.
le sorrisi e la baciai.
sono uno che non trova quasi mai le parole, quando si tratta di questioni emotive.
a stare sopra o sotto di lei, facevo tutt'altro genere di pensieri, legati alla sua foga, al suo desiderarmi in quel modo così assoluto che non mi era capitato di trovare in nessun'altra. mi faceva sentire indispensabile.
e poi io aspettavo ogni volta il momento in cui avrebbe rasserenato la fronte dopo che aveva raggiunto il piacere, e allora sapevo che di lì a poco avrebbe sorriso, prima ancora di riaprire gli occhi, e in quel sorriso io stavo bene.

pensavo che forse avrei potuto amarla per tutta la vita.

per tornare a casa, avevamo scelto di non percorrere le vie consuete, ma strade sterrate tra i campi, che costeggiavano il nastro trasportatore del carbone, il quale avrebbe dovuto viaggiare, per 13 km, in binari protetti e coperti...ma vedevamo coi nostri occhi che non era così.
le piante di carciofi tutt'intorno, e la strada stessa, erano coperte da una patina nerastra.
“ti sembra normale, a te, tutto questo?”
“no, per niente, ma ci saranno dei controlli, lo sapranno cosa stanno facendo, no? magari non è una cosa dannosa per la salute….”
“non so. a me viene di non mangiarli più, i carciofi…”.
“sai che sforzo….non ti sono mai piaciuti molto…”
“no, la frittata di carciofi e i carciofini sott’olio mi piacciono, eccome!” e sorrise pure con gli occhi, come le veniva naturale.
ci venne fame.

qualche anno dopo, paola si ammalò.
un cancro ai polmoni che in pochi mesi la divorò.
aveva 28 anni, non fumava e non faceva un lavoro che potesse essere definito a rischio per questo genere di malattie: era insegnante elementare.

trascorse poche settimane dal funerale, un'inchiesta portata avanti da un periodico nazionale, se ne venne fuori con la notizia che le emissioni inquinanti di cerano erano tra le più alte d'europa, e che si era registrato un consistente incremento delle incidenze tumorali, nelle provincie a ridosso del mefitico camino di oltre 200 m che spurga ossidi di azoto e che, in una terra piatta come questa, si vede a km lontano.

un bazooka puntato contro il cielo.

sono trascorsi 5 anni, e io torno ancora a quella spiaggia, sempre d'inverno, come allora.
non posso farne a meno.
non ho alternative.
mi distendo e chiudo gli occhi, e se sono fortunato e riesco a liberarmi il cervello dal ricordo del suo corpo consumato, mi sembra di sentirla, come allora, paola, viva e forte, su di me.
solo noi due, come barche rivoltate.
sto così per un tempo indefinito. forse è qualche minuto, forse di più. non ho fretta di niente.
quando riapro gli occhi, vedo il cielo, e i gabbiani. sembra tutto immutato.

l'aquila d'acciaio, a pochi metri di distanza, ancora in pieno regime di attività, spalanca le sue fauci e mi sorride.

5 commenti:

TITANIA ha detto...

non sempre ci sono alternative, non sempre si hanno scelte da compiere, a volte semplicemente il dolore va vissuto fino in fondo.
emozionante e vivo questo racconto, ne avrei lette altre 100 pagine.

Anonimo ha detto...

Tante emozioni e latrettante paure...di non poter avere tutte le alternative che immaginiamo.
buona giornata!

Anonimo ha detto...

più lungo no?? ehehehe
bellissimo e già peccato che non ci sia un'emozione per ogni alternativa.. un bacioen miss
Vane

Anonimo ha detto...

ciao miss...
due gran bei post di fila.
Forse è vero che la febbre rappresenta la cura
e non il male.
A volte dico :)

Anonimo ha detto...

ciao bà, son tornata,saluto veloce, sto andando a nanna...baciuz.
sorpresona anche per Khael....